Il lavoro dello psicologo nelle perizie in questo specifico contesto, si esplica
essenzialmente nell’attivazione di un solido processo diagnostico, che deve arrivare ad
evidenziare e delineare, sopra ogni ragionevole dubbio, un differenziale tra il “prima” ed il
“dopo” un determinato evento traumatico, che accerti, che il fatto lesivo oggetto di causa,
abbai effettivamente compromesso il precedente equilibrio psicologico della persona.
A titolo esemplificativo, nel caso di una morte improvvisa e traumatica in un
incidente stradale di un figlio, al di là dell’inevitabile dolore e sconvolgimento emotivo che
questo può arrecare ad una persona che perde un figlio, significa capire e accertare se
questo evento luttuoso possa avere o meno destabilizzato o scatenato una reazione di
natura propriamente psicopatologica, temporanea e/o permanente, nel genitore superstite.
Capire e quindi valutare se oltre al dolore morale e affettivo, vi siano le
caratteristiche cliniche per cui da un lutto “fisiologico” si possa formulare una diagnosi di
depressione o di lutto complicato, che si può manifestare con un ritiro dai rapporti sociali e
dalla vita familiare cosi intenso, tale da compromettere, anche la sua capacità di fare il
genitore, nei confronti di eventuali altri figli.
E’ evidente quindi fin da subito, che in questo specifico settore, al complesso e
delicato lavoro valutativo nella formulazione di una diagnosi psicologica corretta, come
viene definita dall’associazione americana degli psicologi (APA,2002), deve seguire anche
la capacità da parte del consulente di fornire risposte a domande a cui rispondere non è
certo facile, che vanno molto al di là del lavoro clinico dello psicologo in senso stretto, e
che sono legate a esigenze di natura giuridica, come ad esempio la necessità di capire da
parte del giudice e dell’avvocato, sopra ogni ragionevole dubbio, se vi sia o meno una
effettiva relazione o interazione, ovvero un “nesso di causa o di concausa” secondo la
dizione tradizionale afferente alla medicina legale, tra l’evento traumatico e le
conseguenze psichiche accertate, con la possibilità quindi di escludere i casi o i tentativi di
simulazione o enfatizzazione, sottesi alla richiesta risarcitoria, per gli evidenti interessi
anche di tipo economico. È palese dunque, che lo psicologo debba poi tradurre e trasferire la sua valutazione
specialistica, comunicando efficacemente su queste specifiche domande di tipo tecnico e
giuridico, e che non afferiscono solo alla sua competenza clinica e psicodiagnostica, ma
anche ad una sua specifica e peculiare conoscenza delle regole del contesto giudiziario, e
delle figure giuridiche di danno alla persona, riconosciute al momento dell’osservazione,
che afferiscono al campo della psicologia giuridica.
Altra particolarità che va subito sottolineata è la natura squisitamente
sciplinare del contesto peritale. Nel campo della sofferenza psichica diventa ancora
omplessa la comunicazione e la chiarezza terminologica nei pareri richiesti dal
ma giudiziario. Non va dimenticato quindi, la comunicazione con il giudice o
cato, essenzialmente riducibile al linguaggio scritto, è aspetto molto più compl icato in
specifici casi, proprio per la complessità della stessa materia oggetto di indagine e
plorazione (mente e comportamento umano), e che ricordo è ambito di continuo
studio da parte del sapere psicologico, inteso come ricerca di principi “esplicativi” generali,
applicabili poste determinate condizioni di osservazione, e che debbono essere sempre
rispettosi e complementari nella salvaguardia del diritto individuale, direi “inalienabile”, di
ciascuna persona. indubbio, proprio in relazione alla diversità dell’oggetto di studio, che il linguaggio
medico risulti molto più adattabile al contesto forense, il quale risponde meglio alla logica
della “causalità lineare” utilizzata dal giurista, risultando in generale più in linea con le sue
richieste più tipiche: l’accertare ad esempio l’entità di una frattura ossea ad una gamba è
immensamente più facilmente “oggettivabile”, più facilmente rilevabile, anche ad occhio
nudo, rispetto ad una lesione dell’equilibrio psichico e psicologico di una persona.
Sempre nel campo delle difficoltà di comunicazione, il significato stesso della parola
“patologia o malattia”, ha in psicologia un accezione molto diversa da quello che ne da la
medicina, così come quella che ne da l’avvocato o il giudice, che afferisce per lo più al
senso comune. L’uso indistinto o poco consapevole di parole uguali, ma dal diverso
significato, crea anche in questo campo interdisciplinare, non pochi problemi di
comunicazione e di comprensibilità.
In termini più tecnici, questo problema è legato al fenomeno linguistico della
“sinonimia”, che concerne l’uso di una stessa identica parola da parte di più persone, ad
esempio “patologia psichica”, “depressione”, “ansia”,.ma che rimanda a concetti tecnici e
culturali, nonché di visione molto diversi: per cui vi è un fraintedimento non sul codice
linguistico, in fondo si parla la stessa lingua, si usano le stesse parole, ma sui diversi
intendimenti e significati attribuibili alla medesima parola.
Tale complessità e difficoltà di comunicazione, insita alla presenza di diverse
professionalità e quindi ai relativi diversi ambiti di riferimento culturale e tecnico, non va
confusa, peraltro, con la difficoltà di tradurre i concetti psicologici, in parole e termini più
comprensibile, ai non tecnici, che nasce in questo caso per lo più da una “non
conoscenza” della peculiare valenza diagnostica e non terapeutica di questo lavoro, che a
volte va a sommarsi, alla non conoscenza della figura giuridica di danno in questione, né
della sua valenza in termini di “posta in gioco”. (Ponti G. (1983).
Qui il livello della problematica, non si pone quindi sulla specifica “complessità" del
contesto interdisciplinare e della materia oggetto di valutazione, quanto sul rischio di
un’impenetrabilità comunicativa o di una babelica incomprensibilità tra linguaggi diversi,
quando, alla indefinitezza nebulosa di certo argomentare psicologico, si associa un
nguaggio giuridico eccessivamente formale e rituale o addirittura leguleio.
E a proposito sempre della interdisciplinarietà, che invoca di necessità e in moltissimi
casi una stretta collaborazione tra psicologo e medico legale, le evidenti diversità (di
oggetto di studio, linguaggio, strumenti di valutazione, etc.), allo stesso modo che in altri
settori professionali, come in quello sanitario (v. le equipe specialistiche nei reparti
ospedalieri di medicina, e non solo di psichiatria), non rappresentano un ostacolo di per
sé, né devono essere percepite come tale, ma va altresì auspicato e favorito, anche nel
campo delle perizie, un efficace approccio multi professionale, dove le diverse tecniche
possono e devono integrarsi al meglio, per gli evidenti vantaggi derivanti dallacollaborazione sinergica tra i due diversi saperi, anche se complementari , nel non facile
compito di fornire utili chiarimenti ai quesiti tecnici che la giustizia affida al sapere
psicologico e medico.
Tornando ora alle peculiarità del contesto forense, abbiamo detto che esso impone
al consulente, un inevitabile adeguamento anche di altri aspetti del lavoro clinico “puro”,
come abbiamo visto egli deve tenere la porta del suo studio aperta o quanto meno semi
aperta al sistema giudiziario. La perizia rimane, infatti, essenzialmente un atto valutativo-
diagnostico, in cui va esplorato in profondità tutti gli aspetti inerenti allo specifico danno,
ma è etica deontologica rispettare lo stile personale e la sensibilità della persona, pur
tenendo presente lo scopo della valutazione.
In termini professionali e deontologici la neutralità del consulente significa saper
mantenere una giusta distanza, anche nelle opinioni personali, tra chi ha la “colpa”, e chi
ha subito, o ritiene di avere subito un danno ingiusto. In altre parole la neutralità del
consulente, ad esempio durante i colloqui di valutazione, non va intesa come distacco
emotivo o asetticità nel modo di interagire con la persona, per altro impossibile da
eliminare (Carli, 1995), ma come capacità di creare un clima in cui il soggetto/periziando
possa esprimersi senza “sentirsi giudicato, redarguito o peggio ancora attaccato”
(Pandolfi, 1985; Capello, 1995). E’ indubbio, infatti, che uno stile troppo distaccato o un
atteggiamento rigido, impersonale nel condurre o nel fare le domande durante il colloquio,
può penalizzare la comunicazione da parte di alcuni soggetti, di solito i più ansiosi o
semplicemente meno accorti sul piano culturale, rispetto ad altri più smaliziati o scaltri,
con il rischio di non tutelare a sufficienza il periziando in primo luogo dalla perizia stessa
(Anglesio, 2000).
Dal punto di vista giuridico, la neutralità del consulente si declina, in particolare nel
caso della CTU (art.61 c.p.c.), innanzitutto nell’adozione da parte dello stesso di una
metodologia valutativa che assicuri e rispetti il principio difensivo del contradditorio, ad
esempio nel concertare insieme ai CTP, tempi e metodi del lavoro di valutazione,
assicurando loro la partecipazione a tutte le diverse fasi dell’indagine, possibilmente
escludendo la delicata fase della somministrazione dei test, soprattutto se questi sono in
un numero considerevole, consegnando comunque a loro i protocolli e discutendone
insieme i risultati. In buona sostanza è preciso dovere del CTU nel rapporto con i CTP di
consentire loro di partecipare alle indagini con convocazioni concordate o con rinvii
motivati quando richiesti, e comunque non è suo dovere operare con loro un
contraddittorio per trovare una conclusione condivisa, sebbene spesso per il giudice è
meglio che vi sia, e che venga cercata.
Del resto, il rispetto del principio difensivo del contraddittorio di ciascuna parte, è
assicurato e soddisfatto dal giudice stesso con la concessione dei termini per le
osservazioni tecniche delle parti all’elaborato e alle conclusioni del CTU, tenendo conto
che quando le argomentazioni delle parti sono logicamente articolate il giudice può
disporre che il CTU dia chiarimenti, o ulteriori approfondimenti, e nei casi di maggiore
carenza, un rinnovamento della ricerca peritale affidandolo ad un altro consulente.
Altro aspetto di neutralità giuridica, verte sull’esigenza che il giudizio/parere
espresso dal CTU sia il più imparziale e obiettivo possibile, come si dice “al di sopra delle
parti”, in ragione della sua funzione di ausiliario del giudice, nel fornire chiarimenti tecnici
sulla materia oggetto del procedimento, utili alla decisione che spetta sempre ed
esclusivamente al giudice (“peritus peritorum”= il Giudice è il perito dei periti). Alla luce di
tale presupposto, il CTU è tenuto pertanto a non assumere tali incarichi, qualora abbia una
pregressa conoscenza professionale o personale significativa dei soggetti sottoposti alla
valutazione, pena la sua stessa ricusazione3
e invalidazione dell’intera opera valutativa,
con evidenti aggravi nella procedura giudiziaria, nonché con possibili risvolti di
responsabilità professionale e disciplinari a carico del medesimo consulente (art. 26 C.D.).
Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto, che in questo ambiente professionale così
delicato e complesso, dove non vi è mai una certezza giuridica inconfutabile, né
un’oggettività “scientifica” univoca, si debba partire sempre innanzitutto dal rispetto prima
della sensibilità personale del soggetto sottoposto all’indagine, e non ultimo dal rispetto dei
diversi ambiti professionali di appartenenza di ciascun professionista coinvolto, nella
difficile ricerca di risposte di fronte a domande non facili per l’eterogeneità e complessità di
ciascun caso.
Bibliografia di riferimento
Ponti G. (1983) La perizia criminologica, Atti del XXVII Congresso Nazionale della società
italiana di medicina legale e delle assicurazioni. Chianciano Terme, 15-19ottobre 1980,
Giuffrè, Milano, 1983.
Anglesio A., (2000). Problemi diagnostici di valutazione clinica, in “Tagete”, 2, p.51.
(Pandolfi A.M. (1985). Le difese nel colloquio clinico, in A. Quadrio e V. Ugazio (a cura di),
Il colloquio in psicologia clinica e sociale, Franco Angeli, Milano. Capello C. (1995). Clinica
delle relazioni di aiuto, in G. Trentini (a cura di), “Manuale del colloquio e dell’intervista”,
Utet, Torino.
Semi A.A. (1985). Tecnica del colloquio, Cortina, Milano.
Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (2006), approvato ai sensi dell’art.28, Legge
n.56/89.
Linee Guida dello Psicologo Forense (1999), Ass.Italiana di Psicologia Giuridica.